«…tutta una serie di
parallelismi a contrasto nell’esplorazione dei rapporti interpersonali e
di consanguineità: Amleto/spettro paterno, Amleto/Gertrude, Amleto/Claudio
da una parte, Polonio/Ofelia, Polonio/Laerte, Ofelia/Laerte dall’altra; e
poi,forse il più sfuggente di tutti, il rapporto Amleto/Ofelia, tramite
fra i due gruppi.»
(G. Melchiori,
Shakespeare, Roma-Bari, 2005)
Si potrebbe leggere e rileggere
Amleto solo per divertirsi a cercare le simmetrie che legano trame
e personaggi in giochi di specchî stupefacenti per inesorabile musicalità:
come una cellula di Bach o di Beethoven, ci sono pochi banali
motivi (la vendetta!) che si moltiplicano in variazioni, ritorni, echi e
inversioni.
Per esempio, alla scena di Amleto che
non uccide Claudio perché
sta pregando (Atto
III, sc. 3),
fa eco Laerte che, sempre da Claudio ormai incanaglito dalla paura, si
sente chiedere: « Veniamo / al vivo dell’ulcera: Amleto è qui. Che sei
pronto a fare / per mostrarti, nei fatti più che nelle parole, / figlio di
tuo padre?» - Lo sventurato risponde: « A tagliargli la gola in chiesa»
(Atto IV, sc. 7). Tutto in un fiato di parole: questo scambio di
battute vale come riassunto antifrastico di tutto quanto Amleto ha vissuto
finora: il paterno re Claudio fa all’orfano Laerte la stessa domanda dello
Spettro ad Amleto, e la risposta di Laerte è proprio quanto Amleto non ha
fatto con Claudio.
Né finisce qui: perché Claudio incalza
Laerte perché la rabbia è una marea che passa: «Vive entro la fiamma
stessa dell’amore una sorta di stoppino o lucignolo che la fa scemare; e
non v’è cosa che sia sempre della stessa bontà, perché la bontà, divenendo
pletorica, muore del suo proprio eccesso; quel che vorremmo fare dovremmo
farlo quando vorremmo; perché questo «vorremmo» muta, e ha tante
diminuzioni e indugi quante son lingue, mani, accidenti; e allora questo
“dovremmo” è come un prodigo sospiro che dando sollievo fa male» (Ibid.).
– Ancora una volta, dunque, da Claudio vengono parole amletiche:
l’ennesima variazione sul tema della volontà che perde la punta,
come rimproverò lo Spettro ad Amleto, come Amleto si rimprovera sempre.
Sarai o non sarai capace di quello che dici, chiede allora il re al
giovane, ed è la domanda che crediamo di riconoscere di più.
Come una spirale, il dramma fa sempre
gli stessi giri, e fa compiere la sua giostra a tutti i personaggi.
Nessuno si salva. Aveva già detto l’attore Re nella pantomima (sono versi
aggiunti da Amleto?): «Il proposito non è che lo schiavo della memoria, di
violenta nascita, ma di scarsa vitalità (…) ciò che a noi stessi nella
passione proponiamo, col finire della passione perde il suo proposito”
(Atto III, sc. 2): quanto, appunto, Claudio dice a Laerte ripetendo
l’essere o non essere e il cuore di tutti i soliloquî del principe. Il re,
dando per scontato che così non può che essere, che ogni volontà è
destinata a sfarinarsi nel tempo, aggiunge solo l’ovvia richiesta che
Laerte faccia presto (ancora un anticipo di Macbeth): di
ucciderlo fin quando è ancora invasato dall’odio e dal dolore.
Altri specchî, altre simmetrie.
Alla «trappola per topi» di Amleto
(svelare il delitto del re mostrandoglielo all’improvviso in una recita),
s’incrociano «le trappoliere» di Claudio: prima con Polonio; poi, ucciso,
lui, con Rosencrantz e Guildenstern che facciano da guide in Inghilterra
al figliastro, infine con Laerte.
Nel caso del trucco di Polonio di usare
Ofelia come esca per catturare la vera coscienza del principe
(dice il Re: «Il padre di lei, ed io stesso, legittime spie, ci
collocheremo così che, vedendo non veduti, possiamo liberamente giudicare
del loro incontro…», Atto III, sc. 1), corrisponde una simmetria
con la «trappola per topi» di Amleto nella sua stessa meccanica, e perfino
nella sua epistemologia: sia Amleto che i suoi nemici credono infatti che
il vedere non veduti permetta di ricavare dalla fisiognomica e
dalle azioni dello spiato, dai suoi toni e silenzi, la verità; mentre
entrambi i trucchi non porteranno alla fine che a un eccesso inestricabile
di sospetti, ai quali credere o non credere resta un enigma. Shakespeare
porta qui il gioco delle simmetrie fin nei particolari della messinscena:
Ofelia deve far mostra di leggere un libro (per, le dice il padre, «dar
colore alla vostra solitudine», Ibid.), tal quale Amleto che
nell’atto precedente incontra Polonio quando era solo che leggeva
parole parole parole.
Il fallimento di tutte le
trappole rende facile presagire come andrà l’ultima, la più grossolana e
catastrofica. Amleto intanto capisce quasi sempre tutto (o forse proprio
tutto) e, raccontandolo alla madre nella closet scene, a proposito
del Re che lo manda in Inghilterra, pare un sarcastico Beep-Beep
che parli di Will Coyote: «Lasciate fare; perché è uno spasso
vedere l’ingegnere andare in aria per il suo proprio petardo; e sarà
proprio una disdetta se io non scaverò d’un metro sotto alle loro mine, e
li farò saltare fino alla luna; oh, è cosa assai dolce, quando due trame
direttamente s’incontrano su una stessa linea» (Atto III, sc.4).
Come sempre, come tutti, Amleto non sa
fino in fondo ciò che dice, e come il sarcasmo per Claudio possa essere
rivolto non di meno alle trappole sue per incastrare il re. E anche questo
era stato appena detto nella recita dall’attore Re: «i nostri calcoli sono
sempre rovesciati: / nostri sono i progetti, ma non i risultati» (Atto
III, sc. 2): i versi in cui
Kierkegaard sentiva
riassunta tutta la sua filosofia.
Si sa che Amleto più avanti, vedi caso
quando sta andando a morire, deduce dal fallimento di tutti i disegni
umani l’esistenza di una «speciale provvidenza»: se ciò che si realizza
non sono mai progetti umani, saranno disegni di qualcosa più forte
di me (e dunque «sia!»). Anche se ha studiato all’università, è in questo
meno rigoroso di Macbeth, che sa pensare che tutto quanto accade
può non essere nei disegni di
nessuno (lui che è stato preso al laccio dalle streghe!).
Amleto infatti dice: «E sia lodata
l’avventatezza quando val meglio dei piani meditati e ci mostra
l’esistenza di un Dio che dà forma ai nostri propositi qualunque sia il
profilo che ne sbozziamo noi» (Atto V, sc. 2): tale e quale a
quanto penserà il postumo amletico-cristiano
Manzoni: gli stessi
Promessi sposi potrebbero essere letti bene come l’opera che
porta alla massima perfezione possibile questa dimostrazione
dell’esistenza di Dio per esclusione di ogni altra: data l’impossibile
esistenza di qualunque vera volontà umana, non può esserci che Lui: un “eppur
si muove – ma non l’ho mosso io!”…
Ma ora ci interessa far notare un’altra
simmetria: il celebre discorsetto a Orazio sul
passero dalla
provvida caduta (Ibid.) echeggia un’analoga arringhetta a
Rosencrantz e Guildenstern in cui, ripercorrendo la carriera dello zio da
nessuno a re, Amleto dice: «Perdìo, c’è come un progetto soprannaturale in
questo, se solo la filosofia sapesse scoprirlo» (Atto II, sc. 2),
che a sua volta rimanda all’altra battuta celebre del cielo e della terra
più piene di cose della filosofia di Orazio (Atto I, sc. 5).
Un altro intrico di specularità lega
tra loro tutti i giovani, i quali si muovono in una rete di circostanze
imposte, ma mai risolte, dai vecchi. Perfino Fortebraccio, vendicatore
come Amleto non può essere, pensa come il principe che qualcosa sia «fuor
di sesto» in Danimarca («ci stima ben poco o ritiene che per la morte del
nostro caro fratello lo stato sia scardinato e sconvolto», Atto I, sc.
2); e poi le simmetrie tra i due orfani Laerte e Amleto, due giovani
centrifughi che desideravano di non vivere in Danimarca, e – ancora più
sottili – tra Amleto e Ofelia, ridotti a macchine obbedienti per i disegni
dei papà, tutt’e due pazzi, ma forse di pazzie dalle diagnosi
sorprendentemente invertite: perché Claudio dà per certo che Ofelia si sia
persa «per la morte di suo padre»
(Atto IV, sc. 5)
e non per essere stata ripudiata e maltrattata da Amleto, mentre Amleto
sarebbe impazzito- secondo Polonio che quasi convince Claudio ma non la
regina – per essersi visto negare l’amore di Ofelia. Però è Ofelia che
nella pazzia diventa oscena.
Sempre sulla pazzia di Amleto:
all’inizio, Orazio avverte il principe che a seguire lo Spettro fino
«all’orrida sommità della roccia che s’aggrotta sulla sua base entro il
mare» potrebbe vedersi rapire la ragione: «pensateci: il luogo stesso
mette estri di disperazione, senz’alcun altro motivo, in ogni cervello che
guardi da tante braccia nel mare e l’oda ruggire di sotto» (Atto I, sc.
4). – E cosa dirà della follia di Amleto dopo che ha ucciso Polonio?
Che è «Pazzo come il mare e il vento, quando l’uno e l’altro contendono
quale sia più possente» (Atto IV, sc. 1).
AMLETO - Conosci questa libellula?
ORAZIO - No monsignore.
AMLETO - Ci guadagni in stato di
grazia, perché conoscerlo è un vizio.
(Atto V, sc. 2)
Morto un Polonio, subito se ne abbozza
un altro, ma la classe non è acqua ce n’è di strada da fare. Che il
piccolo Osric sia un goffo apprendista lo dice il linguaggio
affettato e meccanico: «…Invero, per parlar di lui col cuore, egli è il
mappamondo e il calendario della cortesia, dacché troverete in lui il
continente di tutte quelle regioni che un gentiluomo vorrebbe ben vedere»
(Ibid.) è una frase che avrebbe potuto dire Polonio, ma
senza perdercisi. Polonio era fin troppo padrone delle sue ampollose
ipotassi; Osric è un ragazzino schiavo di formule imparaticce e sempre
peggio balbettate («ORAZIO - La borsa è già vuota, ha speso tutte le sue
parole d'oro», Ibid.). Amleto ripete con lui lo
sketch del principe col cortigiano che acconsente a ogni sua stupidaggine:
Polonio – ma forse anche per la prudenza con cui si ascolta un pazzo -
riconosceva prontamente tutti gli animali che Amleto vedeva in una nuvola
(Atto III, sc. 2); con Osric Amleto prima dice che fa freddo e poi
caldo (Atto V, sc. 2), ma solo per fargli mettere il cappello in
testa davanti al figlio del Re.